Racconto: Nessun Ricordo

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Squarepusher
00domenica 18 luglio 2004 19:32
Tratto dal "Canto Di Natale" di Charles Dickens

(WeaZ)el.
E’ il mio nome, bambini. Insomma..... non è proprio il mio nome, ma dopotutto, che importa?
I nomi hanno poco valore tra gli amabili paesani del Villaggio, gente semplice, felice, che conduce una vita veramente graziosa, con annessa villetta dotata di giardino ben tenuto e discreta disponibilità economica. Una modesta automobile, una moglie onesta e decente. Incontrano la polizia solo quando i loro gattini dal pelo soffice e setoso rimangono intrappolati in cima ad un albero, e passano le serate a guardare George & Mildred in TV.
Sono bianchi, eterosessuali, e la loro vita è un lungo sogno romantico di armonia e buoni sentimenti. Sembrano scolpiti nel marmo: hanno certezze in tempi dubbi, volontà nella disperazione (oh, dimenticavo, nel Villaggio non esiste disperazione), morale in tempi corrotti.
Bello, no?
E non aspettatevi assolutamente un Villaggio ipocrita, che cela nefandezze perverse sotto un manto di moralismo. Non ci sono scheletri nell’armadio. Non c’è niente di ambiguo sotto i sorrisi splendenti delle casalinghe. Niente. Nessun rovescio della medaglia.
Facevo parte di quel mondo perfetto, un tempo. Sprofondando sempre più in un bianco coma di piccole gioie, piccole glorie, piccole mete.
A cena dai vicini, insieme a SHC e i miei genitori, a conversare amabilmente e rifocillarci di cordon bleu e torte alla mela. Con il vecchio WJS, padrone di casa, che continuava a narrare aneddoti della sua infanzia. Mi dava l’impressione di non ricordare assolutamente niente del suo passato, che la fantasia avesse un ruolo fondamentale nei suoi racconti.
SHC al tempo era la mia ragazza. Il suo volto e le stelle si amalgamavano in armoniosa poesia, quando ci stendevamo sul prato dopo pranzo, fissando la volta metallica di un cielo sintetico.
Gli astri parevano fori sulla sua superficie, da cui filtrava la radiosa essenza del Divino.
Quella casa un giorno sarebbe stata nostra, pensavo. I nostri figli avrebbero conosciuto belle ragazze e avrebbero osservato commossi lo stesso cielo artificiale.
Baciai SHC sulle labbra, con tenera e complice malizia, sapendo che i nostri genitori ci osservavano. Mami arrossisce sempre quando vede queste cose.
Io e SHC facemmo promesse e progetti per il futuro, che ci appariva chiaro e limpido come l’acqua cristallina di un lago. Ci sembrava di essere nati per stare insieme, amarci, e trascorrere tutta la vita l’uno al fianco dell’altra.
Alla fine della cena andai a dormire a casa, con mami e papi.
Prima di addormentarmi, osservai dalla finestra della mia camera i confini del Villaggio, quelle titaniche mura in silicio che si univano al cielo in modo da formare un perfetto emisfero. Ben sapevo di non poter uscire dal mio paese natale, ma poco m’importava. Avevo tutto ciò che desideravo tra le sue accoglienti mura.
Mi lasciai andare nell’oblio del sogno, avvolto dalle mie morbide coperte, con una brezza primaverile che accarezzava le mie gote.
Tutto era confuso nella dimensione onirica.
Vidi i miei genitori (non erano i miei genitori) piangere sul ciglio della porta di casa, mentre il mio corpo (non era il mio corpo) si allontanava da loro. Mi gridavano di restare, di non andare con il clown. Dicevano che non c’era niente al di fuori del Villaggio.
E il clown mi portò via (non ero io), tenendomi per mano. Il mio cuore (non era il mio cuore), era avvolto nel cellophane, stretto nella sua morsa sudata.
Il clown mi chiamò (WeaZ)EL.
Mi disse: “Hanno imprigionato il tuo cuore, fermato il tempo, perché questo avrebbe ucciso le loro illusioni”
Rise grottescamente.
Ero come paralizzato. I suoi denti erano giallastri e incrostati, e il sudore sul volto esageratamente obeso faceva colare il trucco sugli abiti, logori e macchiati di sperma e birra. Si mise una mano nelle mutande, e frugò per qualche secondo, sorridendo in modo volgare, a tratti imbarazzato.
Tirò fuori un biscotto, ricoperto di peli e fluidi corporei. Lo mangiò, e continuò il discorso: “(WeaZ)EL, noi faremo grandi cose...” parlava sputacchiando frammenti masticati di biscotto, ruttando sporadicamente “...faremo sì che il tempo riprenda il suo corso, e possa esistere conflitto e dinamismo. Riavrai il tuo passato e il tuo futuro, Wiz.”.
Si tolse dalle mutande un altro ributtante oggetto. Una lettera rosa, macchiata di sangue e vomito.
“Firma, Wiz” mugugnò “Ci divertiremo”.
Io (non ero io) firmai.
Un attimo (o forse un decennio) dopo, mi svegliai. Ai piedi del mio letto, papi mi osservava preoccupato, mentre mami mi accarezzava la fronte con dolcezza. Il mio corpo, madido di sudore, giaceva sul letto, ancora scosso da brividi. “Hai solo fatto un brutto sogno, XYZ” mi venne detto.
Mi lasciarono dopo una decina di minuti, tornando a dormire.
Ma non ci riuscivo. Nel buio, qualcosa era cambiato. L’angoscia aumentava con l’oscurità.
Il mio corpo giaceva disteso in un letto sconosciuto, sentivo distintamente che non fosse il mio. Mami, dov’era Mami?
Avevo sempre avuto terrore a dormire lontano da lei, nell’ombra, nella tenebra dove strisciano i morti. Dove strisciano i mostri. Si, perché il mostro non è solo nel mondo. Ha amici.
Focalizzai, tentai di vincere quella strisciante sensazione di angoscia che mi strisciava sottopelle. Osservavo, tentando di mantenere la mente lucida, ciò che mi circondava. Il soffitto grigiastro era fiocamente illuminato dalle luci notturne, proiettate da luci nel giardino attraverso una portafinestra.
In quella casa c’era qualcosa che mi sfuggiva, nella notte vi avevo sempre provato una sensazione di disagio innaturale. Ma erano sensazioni vaghe..... perché mi sentivo così? Perché ero paralizzato dalla paura? Perché? Perché Mami mi aveva lasciato in questo posto? Era così scuro, freddo, lo sentivo gravare sul cuore, sentivo dei rumori. Quel posto era pieno di spifferi, e Mami e Papi mi avevano raccontato tante storie spaventose.... mi avevano fatto paura. Ero un bambino, non potevo sapere cosa fosse superstizione e cosa sia realtà. Ma nel contempo non ero un bambino. La mente... la mente era diversa, la mente era unita, era forte. Mi rincuorai, sentendo che il mio empirismo proteggermi come un guscio, ma fu solo una sfuggevole illusione di sicurezza. Dopo un attimo l’ingenuità vinse la ragione. In fondo ero solo un bambino cresciuto. Un bambino fragile. Sentivo qualcosa vicino a me. Pregai.
No. Non sapevo cosa fosse, ma c’era.
Le ombre danzavano attorno a me. Ma non lo facevano mentre le guardavo. Le ombre erano furbe. I mostri erano furbi. Aspettavano che guardassi altrove, ma li vidi muoversi con la coda dell’occhio. Li vidi. Erano stupidi. Li vidi.
Non ero pazzo, ma tutti i mostri e le ombre danzanti erano nella mia testa.
Nella mia testa. Non esistevano. Erano solo nella mia testa.
All’improvviso, la coperta mi coprì la faccia. Chi era? Il mostro e i suoi amici mi volevano soffocare. Non erano nella mia testa. Volevo urlare, ma non ci riuscivo, e dalla mia gola uscivano solo gemiti insensati. DOVEVO urlare, ma non avevo fiato. La coperta mi opprimeva, mi soffocava, volevo agire, ma ero completamente paralizzato. Anestetizzato dalla paura.
L’angoscia mi pervase implacabilmente, la sentivo sulla pelle, come un freddo manto. No, il mostro non mi voleva soffocare. Cosa avrebbe fatto? Sentivo le sue mani strisciare sul mio corpo. Mi toccavano. Volevo reagire. Volevo pensare che fosse solo uno scherzo stupido di mio fratello.
Ma mi resi conto che mio fratello non esisteva. Tutto ciò non stava accadendo nel presente.
Erano memorie perdute del mio passato. Io non conoscevo ancora mio fratello, non era nato.
Le mani mi invadevano, violavano, strisciavano, strappavano la mia infanzia con malizia, e io non potei fare niente. Bloccato dal mio terrore.... ero solo un bambino, per favore.... non avevo bocca per urlare.

“Questo è solo l’inizio, Wiz. Mi dispiace per quello che ti hanno fatto, ma in fondo quella è la tua vita, no?” sussurrò la voce roca del clown. Restava appollaiato sulla testata del mio letto, in impossibile equilibrio, come un grottesco gargoyle.
Mi svegliai, nuovamente.
Ero di nuovo nella realtà. Forse.
Solo. Nell’oscurità. In lacrime.
Ciò che ho visto è un ricordo, non un sogno. Ne sono sicuro. Forse trasfigurato dal mio inconscio, ma è sicuramente uno dei tanti episodi della mia infanzia perduta. Ho imparato a mie spese che non si può curare il terrore.
Chi è il mostro allora? Facevano bene gli Ebrei a scrivere nella Bibbia che “La Bestia ha un nome d’uomo”. Chi è la bestia? CHI deve PAGARE? CHI deve SOFFRIRE per l’INFANZIA che mi è stata NEGATA?

“Calmati, ti verrà la colite se continui ad agitarti”.
Sentii una voce familiare al mio fianco, dolcemente ironica. Riconobbi al tatto la mano di mia madre, affianco a me, accarezzarmi il volto. Sussurrai, tirando un sospiro di sollievo: “Mami....”
Questa parola suonava come la redenzione, mi distese i nervi, rilassò i muscoli.
“No, decisamente no. Non vuoi sapere cosa ti aspetta in futuro?”
Quasi urlai, vedendo che il distorto clown ancora mi fissava dall’alto.
Venni risucchiato in un vorticoso labirinto di pensieri, sprofondando nel sonno profondo. Un sonno forzato, turbante, tra immagini frammentarie di abusi, eccessi, mille labbra, mille seni, occhi ipocriti, sorrisi beffardi da adulatore. Tutto si distorceva e confondeva nel delirio illusorio. Ero la vittima, il boia, il giudice, il carnefice.
Il folle e il messia, la bestia e il genio. Tra carni tremanti, denti e artigli, comparivano solchi sulla mia pelle, ferite infette che accennavano alle delizie più sublimi. Mi arrampicavo tra specchi e strutture decadenti. Le mie brame mi trascinavano verso il basso, i miei eccessi mi stringevano il cuore. Ma era un cuore di carne e sangue, libero dal freddo della plastica.
Riuscivo quasi a percepire il mio Io profondo, la malattia dentro me. Ne avevo bisogno.
Il mio futuro era cattivo, ma così vitale, glorioso. Innanzi alle mie retine, la mia vita, e tutte le vite che avrei potuto vivere. Le vestigia della mia ragione demolite dal desiderio, ingannevoli conflitti per celare un’innegabile volontà maliziosa. L’innocenza strappata da mani vogliose e grottesche, le artigliate zampe del clown.
Aprii gli occhi, e mi alzai dal letto.
Ero nuovamente solo, nell’oscurità, ma non c’era paura.
Sapevo esattamente cosa fare.
Dopo essermi vestito con velocità, attraversai la soglia della mia camera, e scesi le scale. Fuggii dalla mia casa, con tutto l’impeto che il mio corpo poteva sostenere. Percorsi le vie deserte del Villaggio, al massimo della velocità, abbandonando tutto ciò che ho sempre amato.
Non mi voltai neanche una volta.
Nessun ricordo della mia vita passata pareva vero come le visioni che il clown mi donò. Nessun ricordo era reale, probabilmente, a parte i sogni. Ma tutto era confuso, mentre proseguivo per strade perdute, nella totale oscurità.
Avrei lasciato il Villaggio per sempre. Qualcosa era cambiato. Qualcosa dentro.
Il sonno e la veglia erano stati per sempre intrecciati, come i fili del mio destino e quello del clown.
Pensai a SHC. Ne ero innamorato. Ma più forte dell’amore era la necessità di costruire qualcosa di mio. Non avrei tollerato di sopravvivere abbandonandomi al destino come se questo fosse già deciso dalla mia nascita.
Volevo solo fuggire dal dolore.
I volti della mia infanzia vibravano debolmente ai confini della strada, come vaghi fantasmi di un passato concluso.

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