Forte del successo (soprattutto di critica) ottenuto dal suo disco d'esordio, la O'Connor ha in serbo una bomba per il suo successivo lavoro I Do Not Want What I Haven't Got, che esce nel 1990. Si tratta di un vecchio brano di Prince, che la cantante irlandese riesce a stravolgere completamente, immergendolo in un'atmosfera di disperato romanticismo e di malinconia senza pari: "Nothing Compares 2 U" diventerà uno dei più grandi hit del decennio e il suo più grande successo di sempre. Oltre alla bellezza del brano, forte di una di quelle melodie che aprono il cuore, colpisce nel segno anche il videclip, che ritrae una O'Connor sempre con i capelli rasati, ma quantomai dolce e femminile, che piange calde lacrime d'amore dai suoi grandi occhi da cerbiatta. Questo nuovo corso "romantico" tende a prendere il sopravvento anche sugli altri brani: smussate le asperità post-punk del debutto, Sinéad veste i panni di una sofisticata chanteuse pop, capace però di interpretare ogni brano in modo vibrante e personale, donandogli sempre quel tocco di pathos in più. Su questo registro "malinconico", nascono alcune delle ballate più memorabili del suo repertorio, come "Feel So Different", "Three Babies" e "The Last Day of Our Acquaintance", alternativamente sussurrate e gridate su un tappeto sonoro sobrio ed elegante, in cui archi e cori non sono mai eccessivi o ridondanti. Non mancano, comunque, episodi più marcatamente ritmati, come il r'n'b che accompagna il canto a capella di "I Am Stretched On Your Grave", il pop aggressivo di "The Emperor's New Clothes" e il rock elettrificato di "Jump In The River", altro singolo di successo estratto dall'album. E resta il valore dei testi: sempre intensi e dolorosamente autobiografici, non privi di qualche spunto di polemica sociale, come la denuncia dell'ipocrisia inglese nella folkeggiante "Black Boys On Mopeds". Più maturo e meno aspro del precedente, il disco conferma tutto il talento di O'Connor, che mette la sua voce e le sue doti d'interprete al servizio di una sequela di brani indovinatissimi, per melodie, suoni e arrangiamenti.
Con I Do Not Want What I Haven't Got, Sinéad O'Connor getta un ponte tra il post-punk irruento dei primi U2 e le celestiali partiture folk di Enya, compiendo un'operazione di saldatura fondamentale nella storia del musica popolare irlandese.
Nel frattempo, agli onori musicali si alternano comportamenti isterici e provocatori, dettati da una livida collera a lungo repressa. Il suo idillio con l'America, in particolare, finisce precocemente dopo un'incredibile serie di sgarbi: dapprima Sinéad si rifiuta di prendere parte allo show "Saturday Night Live" insieme al comico Andrew "Dice" Clay a causa dei suoi atteggiamenti xenofobi e antifemministi; poi, nel New Jersey, al Garden State Arts Center, s'impunta contro la proposta di aprire il concerto con l'inno americano, come tradizione imporrebbe, facendo infuriare, tra gli altri, Frank Sinatra; infine, quando interviene davvero al "Saturday Night Live" fa ancora di peggio: straccia in diretta una foto del papa Giovanni Paolo II per protesta contro la politica repressiva attuata dalla Chiesa cattolica nel suo paese. Scandalo e riprovazione internazionale si abbattono sulla O'Connor, che viene in breve tempo etichettata come un'eretica o, nel migliore dei casi, una squilibrata. E' il via a una "caccia alla strega" che la perseguiterà ancora a lungo, nonostante le sue successive scuse e giustificazioni ("In quel momento - racconterà - era stata la cosa giusta per protestare contro l'ingerenza della Chiesa nella vita dell'Irlanda").
Nel bene e nel male, Sinéad O'Connor è ormai una diva, e da diva si comporta in Am I Not Your Girl (1992), una raccolta di cover di classici tratti dal repertorio di grandi stelle della musica (e non solo), di oggi e di ieri: da "Gloomy Sunday" (Billie Holiday) a "I Wanna Be Kissed By You" (Marilyn Monroe), da "Why Dont' You Do Right?" (brano di Joe McCoy, cantato perfino da... Jessica Rabbit!) dalla jazzata "Black Coffee" (Sonny Burke/Paul Francis Webster) all'arcinota "Don't Cry For Me Argentina" (evergreen di Lloyd Webber che di lì a poco spopolerà ancora, grazie alla ben più piatta versione di Madonna in "Evita); ma forse il vero gioiello del disco è la struggente ode amorosa di "Success Has Made A Faliure Of Our Home", rielaborazione di un brano di Loretta Lynn, già interpretato da Elvis Costello. L'ex punkette irlandese canta con la classe e la verve di una consumata chanteuse, accompagnata da un'orchestra jazzy anni Cinquanta sulle orme delle canzoni che le "hanno fatto venire voglia di diventare una cantante". Nel complesso, un disco gradevole e garbato, ben suonato e ben interpretato, che molti critici, però, non capiranno.
Per la O'Connor è uno dei periodi più duri. Stroncata dalla critica, odiata da moltitudini di detrattori e in preda a una cupa depressione, trova aiuto e conforto in Peter Gabriel, che la vuole con sé nel cast del Womad Tour, carovana itinerante della world-music, ideata proprio dall'ex-leader dei Genesis. Nel frattempo, esce una raccolta di cover tradizionali, che sancisce per un attimo la sua riconciliazione con la "Grande Madre Irlanda". Un tema, quello della maternità e del rapporto di oppressione/liberazione da essa che tornerà anche nel suo successivo lavoro in studio.
Presentato come "una preghiera dall'Irlanda", Universal Mother (1994) è una confessione a cuore aperto di Sinéad O'Connor. Una sorta di sfogatoio musicale dei suoi demoni e dei suoi psicodrammi familiari, individuali, sociali e politici (apre il disco un estratto da un discorso del 1970 di Germaine Greer contro il patriarcato). Travolto com'è da questo flusso di coscienza torrenziale, l'album è inevitabilmente discontinuo, ma non mancano alcune splendide ballate, che riportano dritto ai fasti di I Do Not Want What I Haven't Got: la struggente "John I Love You", dedicata all'ex-marito John Reynolds, in cui la capacità di amare coincide con un ritorno all'innocenza dell'infanzia, la tenera ninnananna di "My Darling Child", dedicata ai suoi bambini (e scritta dal veterano irlandese Phil Coulter), la mistica "A Perfect Indian" o ancora la lunga, dolente (e invero un po' logorroica) "Thank You For Hearing Me". Diligente, anche se non particolarmente originale, la cover acustica della "All Apologies" dei Nirvana. Appena osa un po' di più, però, O'Connor affoga in un'ingenuità e in un caos d'idee non indifferente, come testimoniano l'improbabile invettiva contro le leggi irlandesi anti-aborto di "Red Football" e quella sorta di storia d'Irlanda a ritmo di hip-hop che è "Famine". L'inno di "Fire On Babylon", poi, dovrebbe essere il pezzo trainante del disco, con le sue pulsazioni prepotenti e le sue atmosfere jazzy, ma si rivela solo l'ennesimo sfogo contro gli abusi della madre e la repressione della Chiesa cattolica. Frutto della confusione e dello stordimento di Sinéad, certamente inferiore ai primi due album, Universal Mother è tuttavia uno dei suoi lavori più sentiti e commoventi.
Il rapporto di odio/amore con la madre Marie torna prepotentemente anche nell'Ep Gospel Oak (1997). "This Is To Mother You", in particolare, è una filastrocca dolorosissima, in bilico tra rabbia e rimpianto, dolcezza e ira: "Tutto il dolore che hai provato/ tutta la violenza che abita nella tua anima/ tutte le cose sbagliate che hai fatto/ tutto questo strapperò da te quando arriverò". L'altro brano-cardine del disco è la nostalgica ballata di "My Love", introdotta da tamburi marziali e interpretata da O'Connor con tutta la malinconia di questo mondo. Nel complesso, questo piccolo, prezioso Ep è la prova che il cuore della musica della bella Sinéad pulsa ancora ed è solo soffocato da una vita in fibrillazione, vissuta costantemente al di sopra delle proprie possibilità nervose e psicologiche. Forse è per questo che ha riversato tutta la sua emotività sui due figli: Roisin e Jake (nato dal matrimonio con Reynolds), tanto da arrivare a dire: "Sul letto di morte, la mia unica speranza sarà quella di essere stata una buona madre".
La stessa cantautrice irlandese dichiarerà: "Cercavo di trasportare su di me un dolore grande come l'Empire State Building. Ero piena di dolcezza, ma anche di rabbia, e se non la buttavo fuori rischiavo di impazzire. Oggi mi sento forte e ho un'immensa fede in Dio". Così l'ex-skinhead, che sfoderava atroci ululati e invettive punk, si è via via trasformata in una predicatrice. Una predicatrice non certo sommessa. Nel 2000, infatti, ha preso il nome di suor Bernadette-Marie ed è stata ordinata prete della chiesa cattolica Latin Tridentine (non riconosciuta dal Vaticano). Inevitabili la nuova sovraesposizione mediatica e lo sconcerto internazionale.
Personaggio scostante, "intrattabile" secondo i suoi stessi discografici, O'Connor ha litigato più o meno con tutti. Anche con i suoi connazionali U2, che ha accusato di "gestire in modo mafioso la scena dublinese". Vivere "contro" è sempre stata la sua filosofia. E il capo rasato, in stridente contrasto con la tenerezza dei suoi occhi e la delicatezza dei suoi lineamenti, né è stato la più fedele icona. Si narra che tagliarsi i capelli a zero fu il suo primo gesto di protesta contro le ingerenze dell'industria discografica, perché quello musicale - dice - "è il peggior business con cui si possa avere a che fare". Ha boicottato i Grammy Awards nel 1991 e ha dichiarato che "Mtv andrebbe abolita, perché la tv uccide l'arte e la poesia". È capace di far saltare un concerto per un banale dettaglio tecnico, come accaduto a Roma, o di far esasperare i suoi stessi collaboratori, come garantisce chi ha lavorato con lei alla colonna sonora del film In The Name Of The Father, per la quale O'Connor ha registrato l'intensa "You Made Me the Thief of Your Heart".
Ma Sinéad l'insopportabile sa anche essere generosa. Ha donato alla Croce Rossa la sua casa da 750mila dollari sulle colline di Hollywood. Ha partecipato a numerosi appuntamenti umanitari e ha destinato al popolo curdo il ricavato del mini-cd My Special Child. Il grande pubblico, però, non le ha perdonato il gesto del "Saturday Night Live" (è stata fischiata al Tributo per Bob Dylan a New York, ed è stata perfino vittima di una campagna di boicottaggio culminata nella distruzione di 200 suoi dischi) e le sue simpatie pro-Ira. "L'Irlanda è come una madre smarrita. Abbiamo perso la nostra lingua e la nostra storia di fronte agli inglesi. E andiamo in giro sentendo questo dolore ogni minuto", ha spiegato a proposito di "Famine", denunciando l'oppressione britannica dietro la tragedia della carestia del 1847 e invocando la riunificazione irlandese e la fine delle violenze.
Le più recenti interviste, invece, sono state ossessivamente incentrate sul tema della sua sessualità. Con esiti contraddittori. "Sono stata a letto con donne, ma sono molto più attratta dagli uomini", ha dichiarato a "Hot Press". "Sono lesbica, anche se finora ho avuto molte difficoltà ad accettarlo", ha rivelato poco dopo a "Curve". A sciogliere il dubbio provvede il singolo tratto dal suo album del 2000, Faith And Courage: "No Man's Woman", scritto insieme a Scott Cutler e Anne Preven, gli autori di "Thorn" di Natalie Imbruglia. La "donna di nessun uomo", nel videoclip, è una sposa che fugge disperata al momento del "sì" e viene salvata da alcuni improbabili "rasta". Ma non è un j'accuse contro il sesso maschile: "È solo il pensiero di un momento; il disco, al contrario, rende omaggio agli uomini ed è prodotto da uomini". Molti, infatti, i maghi del suono che vi hanno collaborato: Brian Eno su tutti, e poi Dave Stewart (Eurythmics), Wycleaf Jean e Adrian Sherwood. Il risultato si può cogliere nella ricchezza degli arrangiamenti e nella piacevolezza di alcuni brani, come "Jealous" o "The Lamb's Book Of Life". Eppure si ha la sensazione che Sinéad O'Connor stia lentamente affievolendo quel fuoco sacro che ne aveva accompagnato il debutto. Il suo canto, attenuate le spigolosità degli acuti dissonanti, si è trasformato in un raffinato sussurro. Ma la sua voce è sempre in grado di innestare un'emozione, un tremito di vita, in ogni canzone. Forse perché le sue confessioni sono così realistiche da suscitare emozioni anche nel più distaccato degli ascoltatori.
Faith And Courage, fede e coraggio, nasce soprattutto da un'ansia di requie. "È un lavoro sull'anima, un disco spirituale, religioso", racconta Sinéad. "L'idea musicale di fondo è quella di conciliare tradizione irlandese e reggae. Ma c'è anche il pop, perché dopo tanti momenti seri avevo voglia di divertirmi". Già, perché Sinéad O'Connor ha sempre vissuto di drammi. Da quelli dell'infanzia, segnati da violenza e solitudine, a quelli recenti, culminati nel rapimento della figlia Roisin e nella battaglia legale sulla custodia della bambina con il padre, il giornalista dell'Irish Times John Waters. Anni vissuti pericolosamente, che l'hanno spinta anche a due (blandi) tentativi di suicidio. Chi ama la musica a prescindere dalle simpatie non può non riconoscere l'influenza profonda della cantautrice dublinese su un'intera generazione di cantanti, delle quali la connazionale Dolores O'Riordan dei Cranberries è soltanto la più celebre. Resta però il rammarico di vedere una delle vocalist più duttili ed espressive della storia del rock sacrificata da composizioni non sempre all'altezza del suo talento, frenata dal suo mal di vivere, oppure ridotta nei panni della cover-girl di Sean-Nos Nua, il suo disco del 2002 in cui si limita a reinterpretare alcuni traditional irlandesi.